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mauro paternò?!

09 febbraio 2012

Sulla riforma dell’articolo 18, sulle delocalizzazioni e altre cose che non capisco

Ci sono delle cose che proprio non capisco.
Faccio un esempio a caso: mi sfugge il nesso fra l’eliminazione delle garanzie poste a tutela dei lavoratori dipendenti dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori da un lato e ripresa economica, dall’altro.
Intendo dire che mi sfugge dove siano i vantaggi dell’operazione, sia per i soggetti coinvolti, sia a livello sistematico.
Parto dai soggetti. Per i lavoratori dipendenti, meno garantiti sulla sicurezza del posto di lavoro, la riforma rappresenta un peggioramento della situazione, con una compressione (per non dire eliminazione) di diritti che dovrebbero essere indiscutibili, che finisce per riportare le condizioni del lavoro dipendente indietro nel tempo, allo stato pre-sessantotto, prima delle grandi conquiste sindacali.
Trovarsi senza lavoro più facilmente, in un’economia come la nostra, in cui l’offerta di lavoro è rigidissima e chi resta senza lavoro oltre i 35 anni è bruciato, perché non riesce più a reinserirsi in altre realtà lavorative, certo non aiuta i lavoratori. Il costo degli ammortizzatori sociali, poi, ricade comunque sulla collettività. Quindi lo Stato, in seguito ad una riforma meno garantista del rapporto di lavoro dipendente, si troverebbe a dover sostenere costi sociali maggiori, che si traducono sempre in un aumento dell’imposizione fiscale sulla generalità dei cittadini. La riforma, conseguentemente, si tradurrebbe in uno svantaggio anche per la collettività.
Guardiamo alle imprese, che tanto “spingono” per ottenere questo cambiamento. Alla fine le imprese sarebbero libere di “adattare” la propria struttura alle mutate esigenze produttive, tagliando tutti i costi, inclusi quelli del personale (che ormai non è più visto come una risorsa, ma solo come un costo da eliminare). Questo il vantaggio nel breve termine, ma nel medio e nel lungo, che succede? Innanzitutto, licenziando più facilmente, le imprese si priveranno anche di risorse preziose, di personale formato e con esperienza professionale e ciò va a detrimento dell’efficienza dell’impresa e della qualità dei beni e servizi prodotti. Inoltre, aumentando la massa di disoccupati, che ha già raggiunto livelli preoccupanti, inevitabilmente si verificherà una contrazione dei consumi (facendola breve: chi non ha un lavoro ha molto tempo libero e magari può anche utilizzarlo per frequentare negozi, ma dispone di scarse risorse monetarie per acquistare beni e servizi). Le imprese ridurranno i costi nell’immediato, ma di sicuro ciò comporterà una diminuzione dei consumi e, quindi, degli introiti delle imprese stesse, perlomeno per quanto concerne il mercato italiano. Qual è il vantaggio perseguito, allora, con la tanto desiderata riforma dell’articolo 18? Probabilmente le imprese, tramite le organizzazioni datoriali, premono sul governo per ottenere in tempi brevi questa riforma in modo da facilitare il processo di delocalizzazione della produzione: con i licenziamenti più facili, sarà meno gravoso (i costi sociali, tanto, li sostiene la collettività al posto delle imprese) spostare la produzione in Paesi affamati di capitali stranieri, nei quali, conseguentemente, esistono allettanti agevolazioni fiscali per gli investitori stranieri e la manodopera costa sensibilmente di meno ed è meno sindacalizzata, quindi più disponibile ad accettare condizioni lavorative svantaggiose.
Credo che qui stia il vero fine dell’operazione.
Le imprese sostengono che la delocalizzazione è uno strumento per abbattere significativamente i costi della produzione di merci e servizi, aumentando quindi la “competitività” delle imprese italiane con le aziende di altri Paesi che riescono a produrre merci e servizi a prezzi inferiori. Così ci dicono, ma è realmente questo l’obiettivo perseguito da chi preme per questi cambiamenti? Attuando le delocalizzazioni, le aziende perseguono davvero la competitività? In realtà, il plusvalore accumulato pagando la manodopera estera meno di quella italiana non si traduce mai in una diminuzione del prezzo di beni e servizi prodotti. Le aziende italiane che delocalizzano continuano a vendere i propri prodotti agli stessi prezzi che praticavano prima delle delocalizzazioni. E allora, dietro la foglia di fico della “competitività”, lo scopo perseguito è quello della massimizzazione del profitto per l’imprenditore, con il costo sociale dei licenziamenti sopportato integralmente dalla collettività. Gli acquirenti dei beni continuano a pagare beni e servizi allo stesso prezzo, a fronte dell’impoverimento del tessuto sociale del Paese (più disoccupazione) e delle casse dello Stato (maggiore incidenza del costo degli ammortizzatori sociali).
Ergo, con la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non si persegue la competitività delle imprese, ma, ancora una volta, come sempre, la massimizzazione del profitto per le imprese a spese della collettività. Ricucci dixit, a proposito di altre questioni, ma la frase calza: “Bello fa’ li froci cor culo de l’artri!” Indubbiamente rozzo, ma molto efficace.
La vera competitività non si fa lasciando famiglie senza fonti di reddito per correre all’estero a sfruttare il lavoro di altri popoli. La vera competitività si fa investendo nella maggiore qualità dei prodotti, nella forza del marchio, nella ricerca tecnologica, nella formazione, nell’aggiornamento e nella crescita professionale del personale. Com’è che la FIAT continua a perdere quote di mercato, mentre Volkswagen, le cui automobili costano di più di quelle FIAT, continua a vendere? Volkswagen produce anche in Cina, d’accordo, ma lo fa per vendere su quel mercato, tant’è vero che in Germania si continuano a produrre 10 volte il numero delle auto prodotte in Italia.
In Italia si continuano ad ignorare verità come queste, a parte i sindacati (C.I.S.L. e U.I.L. si sono svegliate solo recentemente dal torpore degli ultimi anni, in cui hanno accettato di tutto dal precedente governo, mentre la C.G.I.L. è sempre stata sensibile al tema, anche se non altrettanto efficace) nemmeno i partiti di sinistra dicono qualcosa di sensato. Sembra non si possa sfuggire a questa logica perversa, secondo la quale si può uscire dalla crisi solo peggiorando la condizione dei lavoratori dipendenti. Questo è un assunto comune dal quale è impossibile prescindere, al momento.

Io vorrei, invece, che si potesse iniziare a pensare a modi diversi per uscire dalla crisi.


Tanto più che il bene delle aziende coincide solo raramente con quello della collettività nella quale esse operano (vedi alla voce “evasione fiscale”).

31 maggio 2011

Un po' d'aria


Finalmente.




26 gennaio 2011

Mangiare, sputare e altre italiche abitudini

Un delirante editoriale di Mario Sechi su Il Tempo (da leggere, se no non si capisce bene quanto segue) mi risveglia dal torpore invernale per parlare della querelle Saviano-Mondadori e, più in generale, sullo "sputare nel piatto in cui si mangia". Ma andiamo con ordine.
Attendo con ansia il giorno in cui l’italica destra abbandonerà la volgare e meschina abitudine di rinfacciare, a chi è “di sinistra” o si assume tale, i soldi che guadagna, come se che chi è di sinistra fosse geneticamente obbligato all’apostolato in povertà. È pratica disgustosa, ma oltremodo diffusa, purtroppo, nella destra di oggi. Proprio la destra che sostiene il libero mercato e la logica del guadagno. Ma questi sono i tempi, questo è il livello delle dispute letterarie e politiche.
Rinfacciare a Saviano e Camilleri di prendere soldi da Mondadori, quindi dall’odiato Berlusconi, è un controsenso. I soldi che uno scrittore guadagna provengono dalle tasche dei suoi lettori, con l’intermediazione dell’editore, che ne trattiene una cospicua parte. Saviano guadagna dalla pubblicazione della propria opera intellettuale e Mondadori, che ne stampa e pubblica i libri, si prende una bella fetta degli introiti per il disturbo.
Saviano è stato “creato, allevato, coccolato e meritatamente portato al successo dalla Mondadori”? Mica per amore: o meglio, per amore dei soldi. Saviano per Mondadori è un investimento. Molto redditizio, peraltro. Del resto, la “missione del business editoriale non è granché differente da quella di chi produce tondini di ferro: bisogna stampare buoni libri, venderne più possibile e fare utili”. È il capitalismo, bellezza. Di che si meraviglia Sechi?

In ultima analisi, è Mondadori che incassa lautissimi guadagni grazie a Saviano e Camilleri, ed è Mondadori che sputa sul piatto dal quale mangia, quando Marina Berlusconi se ne esce per motivi personali (riguardanti le numerose pendenze giudiziarie del padre) con improvvide dichiarazioni contro uno dei suoi scrittori più redditizi.

Saviano e Camilleri dovrebbero certamente porsi un problema di coscienza, ma la questione sta in questi termini: è giusto che Mondadori (e in ultima analisi, l’odiato Berlusconi) faccia soldi a palate grazie a me, o non è meglio che il mio lavoro faccia guadagnare un editore diverso?

09 dicembre 2010

Sciopero, giustizia e danni irreparabili secondo il Pdl

Domani avrebbe dovuto aver luogo lo sciopero generale del trasporto pubblico... Ma non ci sarà, questo perché l'attuale Ministro dei Trasporti, tale Altero Matteoli, ha precettato i lavoratori rinviandolo a data da destinarsi perché “il provvedimento si è reso necessario ed urgente allo scopo di evitare un pregiudizio grave ed irreparabile al diritto di libera circolazione costituzionalmente garantito". Lo dice testualmente questo Matteoli in una nota in cui comunica il differimento dello sciopero, proclamato da Filt-Cgil, Fit-Cisl, UilTrasporti, Ugl Trasporti, Orsa, Faisa e Fast-Confsal (praticamente tutti i sindacati maggiormente rappresentativi).

A parte i sindacati, che hanno ovviamente protestato, ciò che mi colpisce è che nessuna voce si sia levata in difesa dello sciopero, contro un atto che comprime indebitamente tale fondamentale diritto, l'unico il cui esercizio può permettere ai lavoratori di far valere le proprie legittime rivendicazioni.

È ovvio che l'esercizio del diritto di sciopero nel settore dei trasporti comporta dei disagi alla circolazione pubblica, nessuno si è mai sognato di sostenere il contrario. Ma dire ciò che dice l'ineffabile Matteoli equivale a sostenere che l'esercizio del diritto di respirare comporta un pregiudizio grave ed irreparabile al diritto di non avere l'aria inquinata dall'anidride carbonica espirata.

Che razza di discorso è? La Costituzione afferma all'articolo 16 il diritto alla circolazione dei cittadini, che non può essere limitato per ragioni politiche. La norma della Costituzione repubblicana vuole evitare, dopo il regime fascista, che si possano disporre misure limitative della libertà personale, come ad esempio il confino, utilizzato per neutralizzare gli oppositori politici. Ma cosa c'entra questo con il diritto di sciopero?

E pure se c'entrasse qualcosa, è normale che ogni sciopero comporti dei disagi, ed è altrettanto evidente che esiste una gerarchia tra i diritti costituzionalmente garantiti, che pertanto permette che un diritto ceda di fronte all'esercizio di un altro. Nessuno si è mai sognato di mettere in dubbio verità così lapalissiane, a parte questo mirabolante ministro. Lo sciopero, oltretutto, può comprimere altri diritti, ma solo per un periodo di tempo molto limitato. Quindi, dov'è il pregiudizio grave ed irreparabile? Cosa avrebbe questo sciopero di differente dagli altri scioperi che in passato hanno normalmente avuto luogo senza che alcun ministro sia intervenuto a bloccare illegittimamente l'uso, da parte dei lavoratori, dell'unico strumento che possa loro permettere di far sentire la propria voce? Naturalmente niente.

È evidente che sono tutte quante fesserie, accampate solo per fare l'unica cosa che questo Governo sa fare: frustrare in ogni occasione le legittime rivendicazioni dei lavoratori, con buona pace dei grassatori e delinquenti, indultati fin troppo generosamente per salvare il solito mandante. I criminali indultati e gli evasori fiscali condonati, quelli sì che non hanno danneggiato nessuno, a parte la società civile e lo Stato.

Questo è il concetto di giustizia e progresso sociale di questa gente.

08 dicembre 2010

30 anni fa


29 luglio 2010

Ubuntu Lucid Point Release 10.04.1 delay

A quanto pare, rispetto all'originaria data del 29/07/2010, la versione stabile dell'ultima LTS di Ubuntu (Lucid) sarà rilasciata con un ritardo di tre settimane rispetto alla roadmap stabilita in precedenza, il 12/08/2010.
Questo quanto risulta da una
email di Robbie Williamson, dello staff di Ubuntu, trovata su Launchpad.
Stavo aspettando la Point Release e il ritardo un po' mi secca (sul desktop di casa ho ancora la precedente LTS, non essendomi arrischiato ad installare la 10.04 originale) ma che si prendano pure tutto il tempo che gli serve, basta che la release sia
stabile.

Aggiornamento del 13/07/2010: la data del rilascio è ulteriormente slittata al 17/08/2010! Cliccando su questo link maggiori dettagli.

12 luglio 2010

"La politica del cucù"

La bestemmia sceglietela voi.